IL TRIBUNALE MILITARE Ha pronunciato in pubblica udienza la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di Mariani Carletti Giuseppe, nato il 26 febbraio 1944 a Perugia, atto di nascita n. 230/A/I, residente a Taranto, in via Veneto n. 38, coniugato, censurato, capo 1 cl. presso Maricosom in Taranto, libero, imputato di truffa militare pluriaggravata e continuata (art. 234, primo e secondo comma, e 47, n. 2 del c.p.m.p.) perche' capo 1 classe m.m., in servizio su incrociatore Garibaldi, con artifizi e raggiri consistenti nel produrre al servizio amministrativo di incrociatore Garibaldi due false fatture di trasporto mobilia e masserizie (ditta Santamaria Mario di Taranto del 17 giugno 1991 e del 14 gennaio 1992) e due falsi certificati di pesa pubblica del comune di Taranto, induceva in errore l'amministrazione militare, con danno della stessa e a proprio profitto, giacche' il 27 giugno 1991 ed il 27 febbraio 1992 su incrociatore Garibaldi, riscuoteva L. 6.476.925 e L. 6.456.305 per due fittizi trasporti mobilia e masserizie da Taranto a Fiumaretta (La Spezia) e da Fiumaretta a Taranto conseguenti a due fittizie elezioni di domicilio. Con l'aggravante del grado ricoperto. In esito al pubblico ed orale dibattimento. Fatto e diritto A conclusione del dibattimento il p.m. ha chiesto l'affermazione di responsabilita' e la condanna del capo 1 classe Mariani Carletti Giuseppe alla pena di un anno e sei mesi di reclusione militare. La difesa ha chiesto che la pena da irrogare sia contenuta nel minimo, e la concessione dei benefici di legge. Questo giudice, ravvisata la sussistenza dell'elemento materiale e del corrispondente dolo dei reati in epigrafe, ritiene di dover infliggere la reclusione militare per durata che, cumulata all'anno e sei mesi di reclusione irrogata con sentenza in data 9 ottobre 1958 del tribunale di Perugia, importa il superamento del "tetto" di due anni, e quindi l'impossibilita' di concedere il beneficio della sospensione condizionale (art. 163 del c.p.). Pertanto, trattandosi di sentenza cui sarebbe data effettiva esecuzione, assumono rilevanza censure di costituzionalita' nei confronti delle pene accessorie che ne derivano. Innanzitutto, viene in considerazione la rimozione (art. 29 del c.p.m.p.), conseguenza automatica della condanna per il reato di truffa militare (art. 234, terzo comma, del c.p.m.p.). La perdita del grado rivestito non e', contrariamente a quanto comunemente si pensa, l'aspetto fondamentale di questa pena accessoria, che consiste invece nella perdita delle capacita' di rivestire un qualsiasi grado. La rimozione del grado ricoperto altro non e', dunque, che un effetto, anche se il piu' vistoso, della radicale incapacita' di conseguire nelle Forze armate una posizione che non sia quella di semplice soldato o di militare di ultima classe. La pena accessoria della rimozione sarebbe, pertanto, astrattamente irrogabile nei confronti di qualsiasi militare, da soldato al piu' alto grado della gerarchia. Tuttavia, essa e' prevista soltanto per "tutti i militari rivestiti di un grado o appartenenti ad una classe superiore all'ultima" (art. 29), con evidente violazione del principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione), che, a parita' di condizioni, ne postulerebbe l'applicazione anche ai semplici soldati. D'altra parte, di certo non potrebbe dirsi, per confutare tale irrazionalita', che la rimozione giustamente viene a riguardare esclusivamente i militari rivestiti di un grado perche' solo questi con la commissione del reato violano i doveri a questo inerenti. E' noto infatti che questa sanzione si applica al militare che riveste un grado al momento della condanna, a nulla rilevando se questa qualifica fosse, o meno, presente anche nel momento della commissione del reato. Ma, a parte i profili che ne mettono in risalto irrazionalita' a danno dei militari che ricoprono un grado, la rimozione, per l'automatismo della sua applicazione e per le conseguenze che comporta, appare in contrasto con il principio di umanita' della pena (art. 27, terzo comma, della Costituzione). Non si vede infatti come per reati non sempre gravi (e anche per il solo fatto di aver commesso un qualsiasi, anche il piu' lieve, reato in concorso con un inferiore, come previsto dall'art. 58, secondo comma, del c.p.m.p.), possa legittimarsi una sanzione che metta nel nulla gli sforzi di un'intera vita di lavoro nell'ambito dell'istituzione militare. Non e', evidentemente, in discussione la possibilita' tramite la destituzione di allontanare, se del caso, il condannato dal servizio attivo, quanto piuttosto il mantenimento di un grado militare che, per essere stato dal soggetto effettivamente conseguito, comunque dovrebbe appartenergli, fatta eccezione solamente per i casi estremi, quelli di applicazione delle pene accessorie della degradazione (artt. 28 e 33 del c.p.m.p) o dell'interdizione dai pubblici uffici (artt. 28 e 29 del c.p.). Sono evidenti, peraltro, ulteriori aspetti di violazione del principio di uguaglianza. Solamente per il militare, e non per ogni funzionario pubblico, si prevede infatti una pena accessoria che incide sulla posizione all'interno della pubblica istituzione in cui svolge servizio. Questa sanzione inoltre, pur considerata nei riguardi dei militari rivestiti di un grado, rivela ineguali tassi di afflittivita' a seconda che si tratti di un militare in servizio temporaneo o di carriera. Sentenze della Corte costituzionale e la legge 7 febbraio 1990, n. 19, hanno apportato rilevanti modifiche in materia di conseguenze disciplinari delle condanne penali. Queste novita', pur non modificative delle disposizioni sulle pene accessorie, hanno tuttavia generato incertezze interpretative, per cui non e' escluso che, pur nei casi di condanna che comporti la rimozione, non si abbia poi la perdita della posizione conseguita nella scala gerarchica, in virtu' di un giudizio disciplinare che escluda la destituzione e trattenga percio' in servizio il condannato con il grado rivestito. Per questi dati di diritto vivente, va dunque considerato che il Mariani Carletti, a seguito della condanna di pertinenza di questo giudice, debba poi scontare la pena detentiva ancora rivestito dell'attuale grado di sottufficiale. Gli verra' in tal caso applicata la sospensione dal grado (artt. 31 e 34, secondo comma, del c.p.m.p.), nei cui confronti debbono pure prospettarsi censure di costituzionalita'. Questa pena accessoria, che consiste dunque nella "privazione temporanea del grado militare durante l'espiazione della pena principale", e dunque in un certo senso in una temporanea rimozione, viene applicata ai sottufficiali e ai graduati di truppa. Nell'ambiente carcerario sono per costoro sospese le attribuzioni del grado e, nel periodo di carcerazione, anche l'eventuale rapporto di impiego, che nel grado ha il suo imprescindibile presupposto. Nel caso in cui la reclusione militare venga, invece, eseguita nei confronti di ufficiali, l'art. 30 del c.p.m.p. esclude la sospensione dal grado e prevede la sola sospensione dall'impiego. L'ufficiale, dunque, nell'ambiente carcerario mantiene le attribuzioni del grado, e non subisce la temporanea rimozione. Questo giudice, non emergendo alcuna valida ragione che giustifichi la differenziazione nel trattamento sanzionatorio, in cio' ravvisa una violazione del principio di uguaglianza. Appare, inoltre, evidente che anche la pari dignita' di ogni militare sia incompatibile con una cosi' vistosa disuguaglianza delle pene accessorie. Del resto, l'esigenza di rispetto della persona comunque non consente che, quando per la condanna non sia intervenuta la perdita definitiva del grado, nell'ambiente militare carcerario il condannato sia privato del grado. In definitiva, deve sollevarsi questione di legittimita' costituzionale degli art. 29 e 234, terzo comma, del codice penale militare, in relazione agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione. Deve inoltre sollevarsi questione di legittimita' costituzionale degli artt. 30 e 31 del codice penale militare, nella parte in cui prevedono per i sottufficiali e i graduati di truppa una pena accessoria diversa da quella prevista per gli ufficiali, in relazione all'art. 3 della Costituzione.